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Banche

Un salvataggio bancario non è un pranzo di gala.

La “simpatica” -si fa per dire- Heidi (a me mai abbastanza invisa, visto che me la dovevo sorbire facendo il baby sitter di una bambina viziata, ma ahimè, i soldi all’università sono sempre pochi) riderebbe di meno o forse si farebbe qualche domanda in più su quanto accaduto tra sabato e domenica. Crédit Suisse comprato per due miliardi da UBS, che a questo punto rimane l’unica grande banca svizzera, la banca centrale della Svizzera che “presta”, dopo averli stampati (o forse no) 100 miliardi di franchi per l’operazione. Operazione a carico del contribuente elvetico, cornuto e mazziato: le obbligazioni subordinate vanno in fumo, e così anche il valore delle azioni, ma non per tutti, I soci Arabi, Qatar et similia, che avevano detto di non voler partecipare all’aumento di capitale fatto per salvare la banca, “salvati”, mantenendo intatte le loro partecipazioni azionarie. In Italia la vedrei male, perlomeno pensando all’art.3 della Costituzione. Ma come diceva Jean Ziegler, la Svizzera lava più bianco e, a quanto pare, continua a farlo.

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Alessandro Berti Banche Cultura finanziaria Educazione USA Vigilanza bancaria

Guardie e ladri.

Guardie e ladri.

C’è un rincorrersi quasi malinconico nelle notizie di queste giorni, memori della Grande Crisi 2008-2018 (molto più lunga e devastante, a mio avviso, di quella del ’29), come se si scoprisse all’improvviso che le banche (i ladri) rischiano e quando lo fanno, coefficienti patrimoniali o no, lo fanno perlopiù con i soldi degli altri, ovvero dei risparmiatori, con le autorità di vigilanza (le guardie) che spesso intervengono a misfatto ormai compiuto.
Dalla constatazione che le banche lavorano con i soldi degli altri nasce l’atteggiamento un po’ “feroce”, almeno all’apparenza, del regolatore americano, che gli istituti di credito li lascia fallire, e non per distrazione, anche se si tratta della 16ma banca degli USA (SVB), quasi che ciò servisse naturaliter a educare i risparmiatori a scegliere la propria banca in base alla comunicazione trasparente che la banca fa (?) e alla percezione che di essa ha il cliente del grado di rischio medio ponderato contenuto nelle attività delle banche.
In poche parole, se ti scegli una banca, prima dovresti averne letto i bilanci e compreso il grado di rischio, compreso il CET 1 ratio o il Texas Ratio.
Velleitario o ingenuo che sia, questo è l’atteggiamento a stelle e strisce, che funzionerebbe meglio, forse, se fossero praticate maggiormente la trasparenza e la cooperazione: nel caso americano, ma non solo, questo vuol dire applicare effettivamente le regole degli accordi di Basilea, che anche gli USA hanno sottoscritto (la trasparenza e la comunicazione sul grado di rischio) ovvero erigere il pilastro da sempre -perlomeno da Basilea 2- mancante nella costruzione degli assetti volti ad assicurare la stabilità dei sistemi finanziari.
Trasparenza sul grado di rischio che tuttora manca anche nel Belpaese (in Italia la comunicano nella pubblicità solo Mediolanum e Mediobanca, a mia notizia, e pochi altri: e la comunicano perché hanno requisiti di capitale assai elevati) così come manca la cooperazione. Se Miss Universo dichiara di essere una bella donna, oltre che volere la pace nel mondo, nessuno le dirà nulla, semplicemente perché è vero. Se la figlia del rag.Fantozzi facesse altrettanto, la smentita sarebbe altrettanto unanime e, probabilmente, più fragorosa.
Ricordo come, nel corso di un viaggio di studi presso la British Banks Association, il funzionario che mi ricevette mi donò, con giusto orgoglio, il report contenente una classifica che la stessa associazione promuoveva, basata sul livello della qualità dei servizi offerti dalla banca così come percepito da un cliente tradizionalmente debole sotto il profilo finanziario, le PMI.
Trasparenza e cooperazione -le banche, in competizione tra loro, rendevano tuttavia possibile la compilazione della classifica, aspirando a primeggiare in essa
-, in un sistema bancario dove già all’epoca (1998) si facevano i mutui on line: questa vicenda, che purtroppo non ho più seguito, insegna che non può trattarsi di una semplice questione di regole, ma di una attitudine e di una cultura che non si creano per legge o per normativa regolamentare.
Direi piuttosto che il tema è di cultura ed educazione finanziaria, quella che dobbiamo trasmettere quando spieghiamo in università ma anche quella che si respira nel sentire comune, quella che viene fuori dalla cosiddetta economia civile, dall’impresa, dal lavoro.
La fatica che ho notato presso le banche nell’accettare la normativa degli EBA-LOM, la sua scarsa o nulla conoscenza presso le imprese e spesso presso gli stessi lavoratori bancari, riflettendo che nel documento si invoca “la diffusione di una forte cultura del rischio di credito”, mostrano che le regole non funzionano se non sono fatte proprie all’interno di una visione e di una concezione del fare banca (e del fare impresa) che chiariscano in modo trasparente la missione e lo scopo dell’agire dell’impresa stessa, bancaria e non, e che lo sottopongono al mercato.
Non si tratta solo di sottolineare l’importanza della comunicazione non finanziaria nei bilanci di imprese, le PMI italiane, che faticano a spiegare il minimo sindacale, ma di qualcosa di maggior spessore, che va al di là degli adempimenti formali. La trasparenza e la cooperazione sono un lavoro quotidiano, che non si insegna: si impara praticandole.
Abbiamo di che lavorare, nelle università, nelle banche, nelle imprese.

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Banche fiducia PMI USA Vigilanza bancaria

I molteplici mestieri di una banca “regionale”.

Quando non capisci cosa fa esattamente una banca o un’impresa io ho sempre fatto una sola cosa: sono andato a vedere i conti. Il sito di Silicon Valley Bank fornisce informazioni per la verità assai scarne, pur sempre migliori di quanto non forniscono i siti di molte società italiane, che hanno il malcostume di non depositare i bilanci e pagare una sanzione amministrativa pur di non mostrare i conti alla concorrenza.

Detto ciò, nell’illustrazione dei conti stessi*, SVB è presentata così: U.S. venture-backed technology and life science companies bank with SVB. Yahoo finance la presenta come una banca privata ma, soprattutto, come investment bank e già qui si comincia a capire che qualcosa non va se una banca regionale o di deposito fa la banca di investimento (leggendo nel sito fa molti mestieri, tutti la cerca(va)no, tutti la vo(levano)gliono.

Il totale della raccolta presso la clientela al 31.12.22 è pari a 342 miliardi di $, con prestiti che ammontano a soli 74 miliardi di dollari (poco meno del 20% della raccolta) mentre i cosiddetti assets, parola misteriosa dietro la quale si può celare la qualunque, ammontano a ben 212 miliardi di $ (pari al 62% della raccolta). Parrebbe la re-incarnazione di ciò che in Italia e in Europa non è più possibile fare (e che a Bancaria non si spiega più), ovvero la trasformazione dei rischi e delle scadenze. Non si potrebbe fare nemmeno negli States, che aderiscono agli accordi di Basilea ma che probabilmente vi aderiscono come a una bocciofila.

La domanda è: che cosa sono quei 212 miliardi di dollari di assets se questa è una banca che serve la start-up?? Quanto rischio è insito in quella voce e quanto di esso è stato coperto da capitale? A quanto pare poco, se è vera la vulgata (ma lo sa solo la FED e non lo dirà certamente a noi, per non perdere il capitale reputazione invero assai modesto in termini di Vigilanza), si trattava di titoli a tasso fisso che in caso di rialzo dei tassi si deprezzano: già, ma quali titoli?

E se solo il 20% della raccolta è destinata a prestiti come fai a definirti banca regionale, al servizio delle start-up? L’unica cosa che fai per le start-up, a parte il 44% delle IPO U.S. venture-backed technology and healthcare in 2022, è raccogliere i loro conti correnti, i loro depositi, i loro risparmi. Insomma fai la banca di deposito: che noia, che barba, che noia, sembra una qualunque BCC, con rispetto parlando. E invece rischi assai: vuoi trasformare i rischi e le scadenze, facendo contemporaneamente corporate finance e una quantità di altri mestieri che non ti si addicono, se non per la location.

C’è qualcuno che dovrebbe impedirtelo? Sì, la FED: ma il genio trumpiano ha fatto approvare una legge con requisiti patrimoniali meno stringenti proprio per questo genere di banche, legge bipartisan approvata all’unanimità.

Cherchez l’argent.

*Based on PitchBook dataLearn more

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Alessandro Berti Banche

Qualcosa che non torna (Silicon Valley Bank)

Ne parla sicuramente spiegando le cose meglio di me, l’ottima Loretta Napoleoni, su Il Fatto Quotidiano di oggi, dal quale ho preso in prestito la foto (https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/03/12/il-fallimento-della-silicon-valley-bank-ecco-cosa-una-banca-non-dovrebbe-mai-fare/7093147/).

Ma qualche domanda, da modesti artigiani del mestiere tocca farsela, altrimenti va bene tutto (e ci meritiamo tutto). Certamente la stampa non ha contribuito alla chiarezza (Loretta Napoleoni, peraltro, essendo una economista) e non parlo di certa stampa spazzatura.

Ad ogni modo, volendo sintetizzare e spiegare il fallimento di SVB for dummies, alcune questioni saltano all’occhio. SVB è una banca di deposito, raccoglie denari dai risparmiatori come qualunque altra banca e li impiega prestandoli alle start-up. E già qui c’è qualcosa che comincia a non quadrare: il denaro alle start-up, proprio perché sono tali, non lo prestano le banche di deposito, ma lo investono (la differenza è sostanziale, non solo lessicale) i fondi di private equity, i business angels etc…non le banche. Che diavolo di business model è quello di prestare denari dei risparmiatori a imprese assai rischiose?

C’è qualcosa che non funziona nella divisione del lavoro nel sistema finanziario americano: da quando le banche di deposito, in un mondo dove abbiamo imparato il tema essere quello della liquidità (cfr. gli accordi Basilea 3, anche se gli Stati Uniti, as usual, fanno quello che vogliono in materia) raccolgono denaro a vista per impiegarlo in operazioni di assai lungo e rischioso ritorno? E, soprattutto, per la parte rimanente, gli impieghi finanziari, li lasciano in titoli a reddito fisso che, come sanno certamente anche i sassi, quando i tassi salgono, si deprezzano. Quindi SVB è una banca che lavora per le start-up ma investe in obbligazioni, come un qualunque Unicredit? E che titoli sono quelli che comportano perdite così elevate, forse non T-bill??

E se le start-up non avranno i soldi per pagare stipendi e spese correnti, che strana specie di imprese sono se, una volta passata la fase iniziale hanno iniziato a lavorare? Il problema non sono le start-up, ad evidenza, ma chi le finanzia (come dice Napoleoni, come in un manuale di tecnica bancaria, ma facendo l’opposto), in una fase della loro storia imprenditoriale dove probabilmente hanno ancora bisogno di capitale paziente, non di prestiti bancari.

Un’ultima questione riguarda la Vigilanza: come sanno bene i miei studenti, il Banco Ambrosiano di Calvi fu salvato in un weekend, riaprendo il lunedì dopo come se nulla fosse accaduto, poiché il regolatore Europeo, quello italiano in primis, non ha quasi mai difettato di rapidità. La FED di Jerome Powell si riunisce domani, lunedì, a mercati aperti, e con la santa calma (bisogna che siano svegli anche sulla costa occidentale, la riunione parte alle 8.30 a.m. ora di Los Angeles). Sappiamo che la vigilanza negli States non ha mai rassomigliato neppure lontanamente a quella Europea: Milton Friedman ha lasciato le sue impronte anche lì e, bene o male, il criterio è quello che il mercato deve fare il suo corso e negli USA falliscono molte più banche di quante non ne immaginiamo. Ma in questo modo?

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banca d'Italia Banche Capitale circolante netto operativo Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese Mario Draghi PMI

E la chiamano estate.

E la chiamano estate, questa estate senza te. Senza Mario Draghi, che rimane la governo per il disbrigo degli affari correnti, senza quel buon senso e quell’operosità che pareva aver preso la politica italiana da oltre un anno e che stava dando i risultati sperati, quelli che ogni cittadino sa che servono per il bene comune, se il bene comune è ancora un concetto civico dotato di valore.

Non voglio e non oso pensare a un Governo guidato dall’attuale leader dell’opposizione, ma i segnali non sono confortanti: e sono anche segnali di disimpegno di quel mondo bancario, quello che teoricamente dovrebbe essere maggiormente vicino alle PMI, che si preoccupa più della quantità che della qualità. Nel mentre a una micro-impresa si richiede un business plan per l’anno prossimo da parte di una grande banca di interesse nazionale, altri istituti decidono che si deve lavorare a tutti i costi e che per lavorare bisogna abbassare l’asticella: della qualità delle informazioni finanziarie e quindi della comunicazione finanziaria, della possibilità di instaurare un rapporto banca-impresa finalmente serio e concreto, basato su dati reali e su una relazione aperta, sincera, trasparente, evidentemente non importa a chi è preoccupato solo del giorno per giorno e, udite udite, spinge sulla rete per la vendita delle polizze.

E’ un’estate triste, ma l’autunno potrebbe essere peggio. questo blog si prende una pausa, anche se interventi, dibattiti, opinioni diverse saranno sempre bene accolte. Se scrivete, in altre parole, qualcuno vi risponderà. Una cosa si può dire, sulla quale posso assicurarvi il massimo impegno: di fronte a tutto questo si può solo lavorare bene, sapendo che, fino a quando non hai fatto tutto, non hai fatto niente.

Buona estate.

J.M.

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Alessandro Berti Capitalismo Crisi finanziaria Cultura finanziaria

Ma se io avessi previsto tutto questo, dati, cause, pretesto, le attuali conclusioni…

Ma se io avessi previsto tutto questo, dati, cause, pretesto, le attuali conclusioni…

Già successo, ma alla Regina Elisabetta si perdona tutto. All’inizio della grande crisi 2008-2018 HMQ si altera un po’ con gli economisti, bacchettandoli per non avere previsto la crisi. Ovviamente finisce lì.

Quella che è finita oggi, sul Corriere, è stata la mascalzonata, che non perdono, di titolo e contenuti, riguardante il “flop degli economisti che non avevano previsto tutto questo“. Mi pare che il giornalista fosse Rampini, ma potrei sbagliare: è sparito dal sito un articolo che per due o tre giorni, aprendo corriere.it appariva come prima notizia. Ora, io non sono un economista e non ho previsioni da difendere, ma qualche volta vorrei solo ricordare che nonostante modelli, equazioni, matrici e derivate, l’economia resta una scienza sociale. L’abbiamo riempita di quantità perché proviamo sempre a inscatolare la realtà nei nostri schemi, ma la realtà deborda. Se l’economia fosse una scienza esatta come la fisica, sapremmo che come l’acqua bolle a 100° e gela a 0°, così in qualche modo per prezzi, salari, tassi di interesse etc…

Chi ci prende sempre è solo Nouriel Roubini, perché dice sempre le stesse cose, preconizzando che qualcosa andrà male; e come ogni orologio rotto, due volte al giorno dice l’ora esatta, lui può dire:”L’avevo detto!”. Pessimista cosmico, a mio parere da incrociare solo dopo aver compiuto opportuni gesti apotropaici, il nostro incarna bene il signore della foto. Prevedere il futuro, sa farlo solo il divino Otelma: o il mago Alex.

P.S.: bisognerebbe ascoltare più spesso L’avvelenata di Francesco Guccini.

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Alessandro Berti Banche BCE

Dell’arte del banchiere centrale.

Dell’arte del banchiere centrale.

“La Bce deve decidere se fare veramente la banca centrale, intervenendo selettivamente sul mercato al fine di frenare la speculazione o il panico finanziario, anche se potrà essere accusata di spingersi oltre il proprio mandato.” Così scrive l’amico Daniele Forti, concludendo un suo articolo su Tempi (https://www.tempi.it/bce-finira-ipocrisia-banca-centrale/) che invito tutti a leggere per la lucidità, priva di polemica, con la quale vengono riassunte e illustrate tutte le questioni relative ai tempi che stiamo attraversando. L’inflazione e il rialzo dei tassi, da una parte, la non-tempestività (per molti non solo della Lagarde, soprattutto della Federal Reserve, ovvero Jerome Powell) sono un dato di fatto ormai acclarato. Anche se, andando indietro con la memoria, non mi viene in mente nessun altro così capace di fare bene quel mestiere lì come Mario Draghi (che entrava al Meeting passando dalle cucine per non dover parlare con i giornalisti) e come Alan Greenspan, ex-governatore FED. Il primo con l’ormai proverbiale “whatever it takes“, il secondo con l’aver assecondato lunghi anni di sviluppo per l’economia USA.

Credo, per rispondere a Forti, che l’ipocrisia faccia parte dei ferri del mestiere, dunque non accuserei la Lagarde, pure presa da molti come il sacco delle botte (ho sentito a suo tempo squinternati di ogni risma sproloquiare contro la Lagarde che avrebbe fatto arricchire chissà chi con l’insider trading) di non esercitare la nobile arte del banchiere centrale. Il tema, piuttosto, è radicalmente diverso e fondato su altre questioni, ovvero la missione dichiarata della BCE e quella FED: quest’ultima tutta tesa a ridurre per quanto possibile la disoccupazione, la prima, per volontà dei fondatori -e forzatura germanica- avente come obiettivo quello di mantenere l’inflazione entro il 2%.

Infine, e a mio parere grazie al Cielo, qualcuno ha palesemente debordato dai limiti di statuto, et pour cause, e questo qualcuno, che Dio ce lo conservi a lungo, è Mario Draghi, con il suo quantitative easing. Ma il suo carisma, purtroppo, non si trova al supermercato.

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ABI Banche Crisi finanziaria Imprese Indebitamento delle imprese informazione PMI Relazioni di clientela

Piani (?) di rientro.

Piani (?) di rientro.

Sul Sole 24Ore di lunedì 23 maggio, un articolo a firma di Sandro Feole prende in esame i temi suscitati dal dibattito sull’iter negoziato per la composizione delle crisi d’impresa introdotto dal Dl 118/2021. Il tema è certamente scottante e riguarda le garanzie rilasciate da SACE e MCC che, una volta escusse, godrebbero del privilegio generale ex art.8 bis del Dl 3/2015, al contrario delle offerte transattive formulate alle banche, da considerarsi chirografe. Per avere un ordine di grandezza della questione, di parla di oltre 200 miliardi di € di crediti concessi a una platea di micro e Pmi di circa 2,5 mln di soggetti.

Nel regolamento a suo tempo emanato dal Ministero per lo sviluppo economico, in tema di procedura telematica che la banca può attivare per escutere le garanzie, si afferma che la stessa non può essere attivata se l’impresa non offre almeno il 15% di quanto dovuto: difficile non pensare alla miriade di concordati in bianco, dove le percentuali sono, nei fatti, di qualche decimale superiori allo zero. 

Come giustamente ricorda l’articolista la scelta spetta all’istituto di credito, che dovrà valutare la convenienza alternativa tra liquidazione e diniego, sbarrando la strada all’accordo e aprendo la strada alla procedura concorsuale più penalizzante e certamente non voluta dal legislatore, il fallimento.

Giustamente, tutta la legislazione recente in tema di crisi d’impresa cerca di garantire la continuità aziendale, ritenuta ormai “scopo primario” se non ultimo, delle procedure concorsuali, superando la vecchia concezione liquidatoria della par condicio creditorum: le modifiche del CCII propongono, d’altra parte, un termine di due anni per i piani di rientro. 

La questione proposta da Feole in finale dell’articolo è, tuttavia, “la questione”: usare gli stand still già proposti dalle banche, a patto che siano compatibili con le classificazioni a UTP o NPL. Qui rientra o, se si vuole, cade l’asino di tutta la vicenda: sulla base di quali presupposti analitici, previsioni basate su assumptions ragionevoli le banche faranno tali valutazioni, posto che a tutt’oggi risulta faticoso ottenere (forse ancora di più: decidere di chiedere!) un business plan a imprese in bonis? Ricordando, in maniera del tutto incidentale che siamo di fronte a una UTP ogni volta che l’impresa non è in grado di rimborsare le proprie obbligazioni passive se non attraverso l’escussione delle garanzie. Valutazione, ricordiamolo, lasciata alla discrezionalità della banca, a norma EBA, anche per i debiti in moratoria. Message in a bottle da un amico di un ufficio fidi, grossa banca del Nord-Est: “Ci chiedono la valutazione del DSCR prospettico 2022 (!) ma qui è già tanto che ci abbiano mandato i bilanci 2020”.

Tante care cose.

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Agnelli Alessandro Berti Banche Imprese

Capitani coraggiosi (e garantiti).

Capitani coraggiosi (e garantiti).
“Discussions with state-owned credit insurer Sace SpA are ongoing for a guarantee over at least part of the amount, and there’s no certainty the parties will reach an agreement on the financing, they said. A Rome-based spokesman for Telecom Italia declined to comment. A spokesman for Sace wasn’t immediately available for comment. A new loan backed by Sace would help Telecom Italia boost its reserves after it booked an 8.6 billion-euro fourth-quarter loss because of impairments and avoid possible future downgrades. The company has been struggling for years from high indebtedness amid fierce competition in Italy’s telecoms sector.”
Così Daniele Lepido e Giulia Morpurgo su Bloomberg del 20 aprile u.s. riguardo alla richiesta di Telecom Italia spa circa una richiesta di 3,3 miliardi di euro di “facilitazioni” bancarie da garantirsi da parte di Sace spa.
Così termina la storia di una cash-cow, scalata a debito nel secolo scorso da Colaninno and co., ovvero da “capitani coraggiosi” (copyright Massimo D’Alema), talmente coraggiosi che il debito, come nelle più squallide e manualistiche storie di LBO, non solo è stato addossato alla target, ma la stessa si dibatte da anni nell’eccessivo indebitamento. Termina con una richiesta di fido garantita dallo Stato, come un ingrosso di casalinghi o una falegnameria qualunque, con rispetto parlando per le PMI.
Come finirà? Non finirà male, Telecom Italia è too big to fail, e poi mai come in questo caso varrebbe lo strumento della golden share in mano al governo per impedire che la Società cada in mani straniere; non è una storia da PNRR ma lo Stato ci metterà una pezza. Bene, ma non benissimo; forse male, per lo Stato, per il bilancio che viene fatto con i nostri redditi tassati assai.
Come è cominciata? Male per lo Stato, che ha fatto una privatizzazione, all’epoca, che definire “della mutua” sarebbe persino un eufemismo. Per chi ha memoria storica, quello che ne sortì fu un “nocciolino duro” che controllava l’allora monopolista delle telecomunicazioni con il 6% del capitale; e sempre scorrendo negli annali, si troveranno i nomi dei soliti noti, Agnelli, banche & Mediobanca, protagonisti, da una parte o dall’altra della vicenda. Duole ricordare che Tronchetti Provera, all’epoca, accortosi di avere acquisito il controllo a prezzi di gioielleria da Colaninno, trovò conforto nel Governo di Romano Prodi che, volonterosamente, gli diede una mano.
Visto che finisce a schifìo, almeno proviamo a trarne una morale: quando sovrainvesti a debito (Colaninno) o sei molto scaltro (e l’advisor era Mediobanca) oppure ti rimane in mano il debito e non riesci a pagarlo. Sovrainvestimento=sovraindebitamento, come insegno ancora nelle aule, il debito diventa insostenibile.
Allora non si presentavano le tabelle prospettiche sul rapporto PFN/Ebitda o sull’andamento futuro del DSCR -a quanto pare neppure adesso perché “già il credito rende poco, se poi dobbiamo perdere tutto quel tempo a chiedere i business plan”-; chissà cosa si presentava, bisognerebbe chiederlo agli advisor di Colaninno, che tutto era tranne che coraggioso, nel senso che D’Alema volle dare all’aggettivo. Era geniale, questo sì, ma aveva un bel paracadute, forse più di uno. Probabilmente era una operazione su cui la Borsa ha voluto scommettere, il sentiment degli operatori era positivo, chi si sarebbe messo di traverso. Sic transit gloria mundi, ormai della scalata del secolo scorso non si ricorda più nessuno. Se vi ho annoiato, non s’è fatto apposta.

P.S.: Telecom Italia è too big to fail anche perché i tribunali italiani hanno “riscoperto” il reato di ricorso abusivo al credito e l’illecito della concessione abusiva di credito.
Per gli altri, buon divertimento.

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Alessandro Berti Banche Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI Relazioni di clientela Unicredit

Ossimori (ovvero, del piano industriale di Unicredit).

Andrea Orcel, Ceo Unicredit Group spa.

Ossimori (ovvero, del piano industriale di Unicredit).
Il CEO di Unicredit, Orcel, ha presentato ieri, 9 dicembre, il piano industriale della banca da lui guidata, dove secondo Alessandro Graziani, de IlSole24Ore, “archivia l’era del derisking, e torna a puntare sulla crescita delle attività, anche in Italia”.
Naturalmente, e non potrebbe essere altrimenti, si parla anche di redditività sostenibile, di mantenimento di solidi ratios patrimoniali, di rischio ragionato. Per il resto, molto in sintesi, il piano parla di un aumento dei ricavi da commissioni (difficile non chiedersi fino a quando la clientela sarà disposta ad accettare aumenti indiscriminati senza cominciare a guardarsi in giro e chiedere a qualche banca on line o simili tariffari più concorrenziali) ma anche di un aumento del volume dei crediti che, tuttavia, privilegerà il consumer finance al fine di non fare crescere l’RWA.
Insomma, “Pedro, adelante con juicio”, come fa dire il Manzoni al cocchiere spagnolo del Cancelliere.
Il piano è stato festeggiato dalla Borsa, anche perché annuncia un aumento di oltre il 30% della remunerazione da assegnare agli azionisti, tra buy-back e dividendi, anche se, a detta del cronista, il vero punto forte sarebbe la digitalizzazione, con la creazione di due fabbriche prodotto centralizzate (Corporate e Individual solutions) e la realizzazione di ampie economie di scala.
Unicredit resta fedele alla sua vocazione, quella di grande banca di transazione: non è mai stata una banca di relazione, con il piano industriale presentato ieri, coerentemente con quanto realizzato dai predecessori, punta alla creazione di valore, tentando di volta in volta di cavalcare l’onda migliore (allora, con Profumo, fu la crescita in Europa per linee esterne, con Jean Pierre Mustier quella di vendere i gioielli di famiglia e fare cassa etc…).
La lettura del piano industriale e il senso nemmeno troppo sottile che lo pervade, tuttavia, non possono lasciare indifferenti perché, come spesso ci è capitato di ripetere, nel rapporto banca-impresa occorre scegliere e farsi scegliere, perché ogni impresa è diversa dalle altre e perché le banche non sono fornitrici indifferenziate di denaro, come una facile pubblicistica e certo ceto professionale e imprenditoriale vorrebbero fare credere.
Peraltro, l’annuncio di un simile piano non può lasciare indifferenti i principali competitors di Unicredit, che pure, a parte Intesa, hanno i loro problemi organizzativi e dimensionali da risolvere; in altre parole, il piano industriale di Unicredit preannuncia una battaglia concorrenziale giocata sul digitale, la riorganizzazione dei processi, il puntare a prodotti standardizzati e facilmente collocabili sul mercato. Nulla che possa far piacere a Pmi e micro-imprese, alle quali, in questo momento, dice davvero tutto male, con l’eccezione, forse, dei fondi del PNRR, per chi saprà andarseli a prendere con piani finanziari seri e credibili.
Ma, come abbiamo potuto constatare nel corso di una lunga e approfondita tavola rotonda di presentazione del C.E.R.R.I. (Collegio degli Esperti per la Ripresa e il Rilancio delle Imprese) avvenuta ieri e alla quale ho avuto l’onore di partecipare, c’è ancora molta strada da fare, soprattutto da parte delle imprese -e, per conto mio, anche di molte banche che ancora discutono se sia accettabile un DSCR inferiore (sic) a 1- sulla strada di una vera relazione di clientela improntata alla partnership e perciò fondata sulla comunicazione finanziaria.
C’è da lavorare, occorre scegliere e farsi scegliere e con motivazioni approfondite.
Ovvero: è meglio una vera banca di transazione che una finta banca di relazione.